La ritirata di Garibaldi nel 1849 (E.Matania, Garibaldi e i suoi tempi di Jessie W.Mario, 1884)

GARIBALDI E LA “COERCIZIONE DIRETTA”

di Giovanni Zannini

Dopo aver difeso strenuamente, fino alla fine, la giovane e gloriosa Repubblica Romana, il 3 luglio 1849, approfittando di una tregua per raccogliere morti e feriti, Garibaldi stava lasciando la città eterna per dilagare nello Stato Pontificio con l’intento di sollevare le popolazioni contro il potere del Papa, sperando di ottenere nelle periferie quel successo che era invece tragicamente mancato nella capitale.

Trottava, con a fianco Anita, indomita ma sempre più sofferente, a capo di una colonna di 4.500 (c’è chi dice 5.000, altri 3.000) uomini che si distendeva per quasi 5 chilometri, circondato da una trentina di uomini a cavallo della scorta.

Seguiva la fanteria, poi i carriaggi, l’ambulanza, perfino un cannoncino trainato da due pariglie di cavalli, infine, in retroguardia, la cavalleria: un piccolo contingente alla caccia del quale si posero gli alleati del Papa, austriaci, spagnoli, napoletani, francesi, che, dopo averlo lasciato, inspiegabilmente, andar via pacificamente da Roma, quando lo avevano praticamente nelle proprie mani, si affannavano ora a corrergli dietro per acciuffarlo.

Garibaldi, vecchio guerrigliero, riesce a sottrarsi alla cattura con finte, deviazioni improvvise, facendo circolare false informazioni che disorientano gli inseguitori.

Ma la speranza di far insorgere la popolazione contro il potere pontificio si attenua sempre più: taluni (pochissimi!) lo applaudono, ma la maggioranza è indifferente o addirittura ostile, soprattutto non sopporta le requisizioni che Garibaldi ordina per sfamare i suoi uomini che, sfiniti dalle lunghe marce e oppressi dalla fame e dalla sete, disertano sempre più abbandonandosi a ruberie e violenze di ogni genere.

Per porre fine a questi soprusi il Generale emette un’ordinanza ove fra l’altro si dice che “chi si renderà colpevole di furto per oggetto di qualsiasi valore e natura, si renderà passibile della pena di morte”.

E di fronte alla popolana che urla e strepita contro uno dei suoi che le ha sottratto una gallina, Garibaldi, furente, non esita ad uccidere il malcapitato.

Si tratta dell’episodio che sarebbe accaduto dopo l’uscita da Roma, sulla strada per Orvieto, del quale i detrattori di Garibaldi si avvalgono per dargli dell’avventuriero, del violento, di uomo privo di ogni scrupolo morale.

E allora? Se il fatto fosse realmente accaduto, l’Eroe dei 2 Mondi sarebbe un assassino?

Prima di rispondere, occorre rifarsi alle condizioni psico-fisiche in cui Garibaldi versava nel luglio 1849.

Anzitutto, con l’avanzare dell’età il suo fisico era tormentato da quei dolori reumatici, conseguenza di una vita sregolata e di strapazzi, che andavano vieppiù aggravandosi.

Era stressato dai duri combattimenti, alla testa dei suoi uomini, sulle mura di Roma per difendere la città contro i francesi numerosi, ben organizzati e meglio armati, desiderosi di conquistare la città per reinstaurarvi il Papa Re e, oltre a ciò, stanco delle controversie con gli altri difensori della città sulla condotta dei combattimenti e sul futuro della giovane e pericolante Repubblica Romana.

Poi, la disillusione – ed il rancore – per il fallimento delle sue previsioni: aveva sperato che, al suo apparire, le popolazioni dello Stato Pontificio si sarebbero rivoltate contro i loro governanti: invece, assistevano freddamente al suo passaggio con pochissimi applausi, molti mugugni e soventi soffiate agli inseguitori sui suoi movimenti , soprattutto perché le requisizioni da lui ordinate per sfamare i suoi uomini, e le rapine perpetrate dai sempre più numerosi disertori che la gente riteneva ancora ai suoi ordini, non erano certamente il modo migliore per attirare le loro simpatie.

I 4 o 5.000 uomini usciti da Roma si erano ridotti, quando, braccato dagli inseguitori trovò rifugio nella piccola Repubblica di S. Marino, a 1.500, e quelli che ne sortirono con lui nel disperato tentativo di raggiungere Venezia ove ancora resisteva Manin, furono poco più di 200.

Infine, le condizioni di salute, che andavano sempre più peggiorando, della moglie incinta (“un carissimo e doloroso impiccio” scrive nelle sue memorie) che di fronte alle insistenze del marito desideroso di sistemarla in luogo sicuro rifiuta: “tu vuoi lasciarmi”, gli dice, e, pur allo stremo delle forze, si rimette in cammino accanto a lui.

Insomma, tanti i motivi che avevano trasformato, il “bonario Garibaldi di sempre” in “un altro, duro e spietato”: per cui, anche se l’uccisione del ladro avvenne per sua mano, si sarebbe trattato della legittima risposta alla provocazione di chi aveva, nelle drammatiche circostanze in cui avvenne, disobbedito ai suoi ordini.

Infatti, egli era il comandante del piccolo esercito che volontariamente lo aveva seguito, e sul quale aveva potere di vita e di morte in base al Decreto emesso dopo l’uscita da Roma che praticamente istituiva la legge marziale.

Si pensi che fino a tempi recenti (1994), l’art.241 del Codice Penale Militare di guerra italiano prevedeva la c.d. Coercizione Diretta in base alla quale, a salvaguardia della sicurezza di un corpo o di parte di questo, il comandante poteva passare o far passare per le armi chi era colto in fragranza di reati che potessero mettere in pericolo la sicurezza del corpo stesso.

Se, quindi, fino a non molti anni fa il comandante di un corpo dell’esercito regolare italiano era dotato del potere previsto dal suddetto articolo (“passare o far passare per le armi”), ne era certamente dotato anche il comandante di un esercito composto di volontari, irregolare, raccogliticcio e disordinato al quale solo una disciplina ferrea e, talora, crudele, consentiva di conseguire vittorie insperate.

In conclusione vanno invece condannate, ieri come, malauguratamente, oggi, la guerra e le sue leggi spietate con le quali i potenti della terra osano violare, prepotentemente, il bene supremo della Pace nel mondo.